macbeth

Partiamo dal fatto che le opere in televisione (che ci hanno salvato la vita durante i lockdown) sono come la foto di un piatto gourmet di un grande chef su instagram: fa venire l’acquolina in bocca ma non lo puoi assaggiare.

Perché inizio così? Perché ho avuto modo di assistere allo spettacolo del 10 dicembre, a tre giorni dalla prima di Sant’Ambrogio, e quindi con un ricordo molto preciso e nitido della trasmissione televisiva. Se lo spettacolo visto in TV mi era sembrato di grande pregio, quello dal vivo mi è parso uno dei migliori degli ultimi anni, il più bello di quelli inaugurali dai tempi del “Fidelio” e forse la più grande prova del Maestro Chailly di sempre (al pari con la “Salome” che, però, ebbi purtroppo a vedere solo su RaiPlay). Voglio iniziare a parlare proprio della direzione. Un “Macbeth” strepitoso, nipote di quello abbadiano e come tutti i nipoti, con lo stesso DNA ma con esiti diversi. Si capisce, adesso, il percorso che il Maestro sta facendo con Verdi in Scala, percorso che, ricordiamo, comprende “I Masnadieri”, “Rigoletto” e “Aida”, oltre alle inaugurazioni con “Giovanna d’Arco” e “Attila”. È uno studio delle sonorità verdiane in ogni direzione e questo “Macbeth” è la prova evidente di quale profondità il suo scavo abbia raggiunto.

Non avevo mai avuto occasione di sentire il “Macbeth” con un tale livello di dettagli, di analisi, di sfumature, come una lezione a partitura aperta. Non si pensi che a questo corrisponda una lettura fredda o antinarrativa. Esattamente l’opposto: fuoco, vigore, impeto, tensione continua. In ogni momento della serata era come assistere a un saggio su Verdi, in cui “Macbeth” è la chiave di volta dell’arco verdiano. Chailly ci guida e ci dice: “Senti qui? Questo è Rigoletto e qui Giovanna d’Arco, qui è Otello, e cosa è questo se non Don Carlos. I ballabili? Aida e Vespri, ma qui anche meglio. Patria Oppressa? È chiaro che è il Requiem”. Insomma, il Maestro ha dimostrato il ruolo di “Macbeth” nella produzione verdiane: il prima e il poi. Attendiamo con ansia il Ballo in maschera di primavera. Che ci aspetti un “Don Carlos” o un “Otello” a breve? Emozionante, intellettualmente e musicalmente intensa. La precisione e il controllo del suono sono incredibili anche grazie a un’orchestra che ha dato una delle sue migliori prove. Muri di suono, trasparenze, agogiche mozzafiato, una fuoriserie in piena corsa.

La compagnia di canto è pura opulenza, non solo nel quartetto di punta ma in tutti i ruoli. Salsi, Netrebko, Abdrazakov sono l’eccellenza delle eccellenze di quanto è disponibile oggi. Non solo: sono una compagnia affiatatissima ed evidentemente divertita. È il caso proprio di dire “partner in crime”. Il Diavolo Netrebko dipinge una Lady Macbeth terribile e sensuale. Una vera divina da cui è impossibile togliere gli occhi di dosso. Appare sulla scena che sembra un’Imelda Marcos con un bicchiere di whisky e una sigaretta e attacca un “Vieni! T’affretta” da far tremare i polsi, come nell’immediatamente successivo “Or tutti sorgete, ministri infernali”. Ne “La luce langue” sembra indemoniata, insieme alla scena di sonnambulismo (appesa a un cavo su un cornicione) il punto più alto della sua performance. All’inizio del terzo atto, inoltre, Anna si esibisce con grandissima sensualità in una danza infernale che sembra di assistere a Salome. Ho letto parecchie disquisizioni sul suo registro grave troppo marcato, sugli acuti tirati, sulle agilità poco agili e altre varie applicazioni del microscopio alla singola nota: francamente a me la sua capacità vocale continua a impressionare, ma è la sua qualità di interprete che mi lascia senza fiato. Ovazione incontenibile alla fine di “Vieni t’affretta” che la ripaga di alcune ingiusti attacchi della prima, a cui risponde dalla poltrona su cui è seduta con un sorriso e il segno di vittoria. Maiuscola, Divina, Incredibile (Sì, la amo devotamente).

Luca Salsi mi colpisce sempre per l’impressionante organo vocale di cui è dotato. Ha un colore e un volume eccezionali. Voce sempre in maschera, emissione perfetta, polmoni infiniti e in grado di modulare e di sussurrare mantenendo sempre dizione e sillabazione precise e scultoree come pochi altri. Vera scuola italiana di canto, vero Verdi. Se alla televisione la cura per la parola mi era sembrata eccessiva fino al manierismo era probabilmente per un difetto di bilanciamento dei microfoni. In teatro è perfetto. Se un limite vogliamo trovare, è che il suo Macbeth è eccessivamente un maschio alfa. Anche nel dolore è dramma, mai dubbio o tentennamento. Mi è piaciuto tantissimo nella scena dell’apparizione di Banco ma è nel “Pietà, rispetto, amore” che raggiunge vette da vera antologia e il teatro lo ripaga con l’applauso a scena aperta più lungo della serata.

È un peccato che Macbetto uccida subito al secondo atto Banco, perché un cantante come Ildar Abdrazakov non vorremmo mai sentirlo smettere di cantare. Che voce, che nobiltà, che autorevolezza. “Come dal ciel precipita” è una vera lezione di canto e di interpretazione. Al pari è il Macduff di Francesco Meli, un Macduff che è raro ascoltare a questi livelli, con una voce squillante in gran forma. Dipinge un personaggio a tutto tondo e tocca il cuore in un dolente “O figli, o figli miei” di grande bellezza. È giusto ricordare, infine, Ivan Ayon Rivas nel ruolo di Malcolm e Chiara Isotton nelle vesti della Dama di Lady Macbeth. Anche in questi due casi grandissimo lusso e sicuramente li ritroveremo a breve in ruoli ben più impegnativi.

Infine la regia, che è stata al centro del chiacchiericcio consueto che si manifesta ogni volta che uno spettacolo si allontana dal cliché del teatro alla Margherita Waldmann. Il Team Livermore (di compagnia di teatro stabile si parla, in cui ogni elemento non può fare a meno dell’altro e in cui non si può distinguere l’apporto dell’uno da quello dell’altro), ha raggiunto un livello tecnico che va al di là dello straordinario. Una macchina infallibile, basata su una concezione del teatro che è azione scenica ma che ha il torto di mettere a volte in ombra la psicologia dei personaggi e la loro verità. Ogni spettacolo è una dichiarazione centrata su un tema – in questo caso il potere che distrugge tutto quello che incontra – con un linguaggio visivo molto preciso e molto ben articolato. Tutto è al servizio della musica, perché musicalissimo e ancorato alla partitura ma talvolta anche contro la musica per un eccesso visivo, sia di stimolazione ottica sia di movimenti sul palcoscenico. Non c’è un solo secondo in cui in scena non accada qualcosa. Un praticabile che sale, un ascensore che scende, una fontana che si tinge di rosso, un’esplosione, un vetro che si rompe, una poltrona che si sposta, un bimbo che corre, e, e, e….

Se c’è qualcosa che posso dire mi abbia affaticato è proprio questo horror vacui, questo continuo andare e venire, come si diceva in Bohème. Trovo la collocazione in un presente/futuro distopico molto corretta e molto ben resa con soluzioni sceniche davvero eccellenti (la corsa iniziale in auto tra boschi e città è davvero un pezzo di maestria teatrale, così come le citazioni cinematografiche e di storia dell’architettura e del design). Tutto davvero bello e divertente. Troppo. Ultime menzioni per un corpo di ballo inappuntabile nelle belle coreografie di Daniel Ezralow, il coro che canta come solo il coro della Scala sa fare e con la migliore Orchestra al mondo per le opere di Verdi, naturalmente quella del Teatro alla Scala. Quindici minuti di applausi e urla.