Lubomyr Melnyk non si può definire “solo” un musicista. È un personaggio anomalo che va ben oltre la musica. È uno sciamano, un sorcier che, agitando vorticosamente le mani sulla tastiera, evoca spiriti che emergono dal profondo per librarsi nel cielo.
E come ogni buon sciamano, l’artista ucraino ha un sua nutrita corte di seguaci. Nello spazio semibuio dell’associazione O’, circa 200 persone sedute per terra, a gambe incrociate, assistono rapite alla celebrazione del rito. Un omino dai lunghi capelli bianchi e dalla voce flebile inizia a raccontare: “Ho suonato il piano per tutta la mia vita. Suonare il piano è la sola cosa che io sappia fare”. Con un’ingenuità disarmante, continua: “Il suono è mistero. Il suono è un miracolo. La scienza produce nonsense: la musica non è un’onda, non sappiamo cosa sia. È trascendenza della carne, una forza che produce cambiamenti nel corpo”.
È allora che introduce il primo brano “Meditation”, un racconto che parte come un momento meditativo e che in breve si tramuta in un flusso di note sempre più aggrovigliato senza soluzione di continuità. È così che Lubomir Melnyk ci trascina nel suo mondo. “Butterfly” è l’unico pezzo che si apre alla melodia, un suonare – a suo dire – non virtuoso, nato per caso sedendosi al piano di una hall di un albergo attorniato da bambini a raccontare favole piene di suono.
“Mazeppa”, appartiene alla fase due della “Continuous Music”, sperimentazione di grande complessità. Il brano, nato a partire dal 1999 e appena terminato, è ispirato a Mazeppa, eroe del XVII secolo, ucraino come l’artista. Il racconto è della notte prima della battaglia a fianco degli svedesi di Carlo XII: poche centinaia di uomini contro le truppe di Pietro Il Grande, che sa che i suoi uomini marceranno verso una sconfitta certa e probabilmente verso la morte. Un racconto, che è la narrazione musicale del suo tormento interiore; una ballata romantica in chiave contemporanea dall’incredibile difficolta esecutiva, puro magma sonoro che travolge, lasciando senza respiro.
A chiudere, la poetica storia di un mulino a vento che per 400 anni ha fatto il proprio dovere e che, in una notte di tempesta, piano piano va sgretolandosi travolto dalle intemperie. È un momento in cui il dolore e il dispiacere di distaccarsi da questo mondo si confrontano con il sentimento profondo di commozione e gratitudine per tutta la bellezza che ha visto nella sua vita. Lubomyr Melnyk traduce tutto ciò in musica con “Windmills”, brano per due pianoforti (uno preregistrato) in cui la complessità di scrittura ed esecutiva scompaiono davanti a una solida base tonale e alla ricorrenza di melodie spezzate che fanno risultare l’ascolto di grande facilità.
Grandissima lucidità interpretativa e incredibile vigore.