Un ruscello, una scarica di lampi, vampate di fuoco. Troppe immagini, nessuna giusta, per descrivere un concerto di Krystian Zimerman.
Tanto è attenta, profonda, di logica strettissimamente musicale, la sua lettura del poderoso dittico di sonate che Franz Schubert compone nel 1828, ultimo anno per lui. Monumenti dell’interpretazione incontrano monumenti della letteratura pianistica, dunque: succede al Regio di Parma una sera d’aprile. D 959 e D 960: un numero del catalogo Deutsch a dividere i due capolavori, l’intensità dei due movimenti lenti ad unirli. E Zimerman, il polacco brillante e profondo, cuce le due sonate sulla linea che dall’Andantino della Sonata in la maggiore arriva all’Andante sostenuto della Sonata in si bemolle.
Nel primo, un battere pesato come il piede di un Wanderer nella neve, che procede inesorabile in un inverno che più secco non si può. Bastano i cromatismi a dissolvere la cruda realtà, prende vita un dramma di accenti che sono lame puntute, inesorabile un trillo riporta alla realtà, si insinuano nel fraseggio del pianista morbidezze che ritroveremo nel secondo movimento della sonata sorella. Tutt’intorno, uno Schubert che è limpido, fluido. Sbrigativo mai, va da sé: Zimerman è pianista profondo, incornicia di luce ogni dettaglio musicale, che sia l’incipit vigoroso della sonata D 959 o l’Allegro ma non troppo che chiude l’altra, con quell’ottava che risuona arcana e da cui germoglia tutto il movimento. Zampillano gli scherzi sotto le sue dita agili all’inverosimile, le dinamiche variano a ogni ritornello. Lui composto nel frac, crine argenteo, pochi gesti ma significativi.
L’applauso del Regio sembra non finire mai. Zimerman ringrazia e regala tre pagine pianistiche del conterraneo Szymanowski. E ancora distilla, in fine di serata, instabili armonie con tocco sovrano e (possiamo dirlo?) impareggiabile.