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Un’opera, o meglio una sinfonia scenica, sull’arte e sulla sua creazione da parte dell’autore. Un percorso dal “generale” – fumoso e confusionario – al “particolare” – alla rivalorizzazione dell’individuo come parte di un’unità cosmica.


Sono questi i temi su cui si sofferma Il suono giallo, la nuova creazione di Alessandro Solbiati per il Teatro Comunale di Bologna: a partire dagli sperimentali testi di Kandinskij per Der gelbe Klang, con l’aggiunta di un frammento tratto dal saggio Oltre il muro, il compositore realizza un lavoro di estrema complessità e di non automatica comprensione, e l’impatto immediato si limita probabilmente a un senso di suggestione “con domande colme di enigmi”, come recita il testo.

La partitura di Solbiati è comunque ricca di tensione e sono pregevolissimi certi “gonfiori” dell’orchestra, o il trattamento dei violini, che producono un suono quasi minerale. Lo scoglio più grosso ed evidente è rappresentato dall’assenza di uno sviluppo drammaturgico, relegando nel concettuale (quando non nel concettoso) la ricerca kandinskijana, già di per sé ai limiti dell’iperuranico, quasi più simile a un particolare tipo di arte performativa (e qui sta la sua rivoluzione) che al teatro vero e proprio. Il progetto scenico curato da Franco Ripa di Meana e Gianni Dessì, con l’aiuto alle luci di Daniele Naldi e la drammaturgia (di cui anche fra gli artefici, dunque, si sentiva la necessità) di Marco Gnaccolini, pone la riflessione in uno spazio onirico, cangiante, che va aprendosi durante i sei quadri e sette intermezzi incastonati fra prologo ed epilogo: esso contiene la fermentazione dell’opera d’arte nell’intimo del suo creatore (“Ogni opera nasce nell’inconscio”) e pare quasi un processo che coinvolge l’umanità intera, sublimata come parte di un tutto. Ripa di Meana, nonostante alcune scene molto belle, come quella della stanza gialla capovolta o l’apparizione dei Giganti, non riesce però a dare un respiro a quello che sembra un grande saggio musico-teatrale, e si serve del linguaggio della metafora visiva per inscenare quella che è già di per sé una metafora, innescando un meccanismo eccessivamente criptico.

Il Maestro Marco Angius, specialista nel contemporaneo, guida con la consueta cura l’Orchestra del Comunale di Bologna che, ormai avvezza a tale repertorio (per il meritorio impegno del Teatro nelle produzioni di questo genere), raggiunge sempre livelli di eccellenza, così come il Coro preparato da Andrea Faidutti. Eccellenti sono stati anche i solisti sul palcoscenico: il soprano Alda Caiello, il mezzosoprano Laura Catrani, il tenore Paolo Antognetti, il baritono Maurizio Leoni e il Basso Nicholas Isherwood.

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