Sostengo Pereira.
Lo spettacolo inizia con una squallida polemica dei soliti noti per la decisione del sovrintendente di far iniziare gli spettacoli alle 20.05. Scusate ma non capisco: non si tratta di sciatteria di un teatro che inizia le sue rappresentazioni quando capita. Parliamo di una decisione presa di iniziare cinque minuti dopo. Ci sono teatri che iniziano alle 19, altri alle 20.30 altri alle 21. Dov’è il problema? Probabilmente ci sono persone che vedono un proprio ruolo solo come contestatori, a prescindere. Comunque…
Fidelio è un’opera difficile. Non perché sia in tedesco, non perché il solo primo atto duri quanto tutta l’Elektra, ma principalmente per la sua discontinuità e per le sue imperfezioni. E anche qui sta la sua magia. Analogamente a “Le affinità elettive” di Goethe, Fidelio è un teorema e i personaggi sono elementi, non persone. Non c’è alcuna caratterizzazione psicologica o sfumatura. Elementi in chiaroscuro all’interno di un quadro alla David che illustra i sentimenti umani. Così profondamente umani da diventare divini.
E Daniel Baremboim sembra seguire questo percorso costruendo il caso in crescendo come un avvocato in tribunale. Non parleremo della scelta dell’ouverture (siamo stufi delle disquisizioni su quale delle quattro ouverture sia il caso di proporre). Liberissima e autorevolissima scelta interpretativa.
Il Maestro ci presenta un primo atto dall’approccio attentamente analitico, ricchissimo di dettagli dai tempi decisamente allargati. Espone, ci offre il contesto, ci mostra gli elementi della storia. Ora Mozart, ora Schubert. Una linea musicale, ancora contagiata dal contesto culturale da cui nasce e che cerca una propria identità (che troverà decisamente nel secondo atto). La summa e la fine del singspiel.
Il secondo atto è fuoco allo stato puro, nel gorgo dei sentimenti che attanagliano i protagonisti nel buio delle segrete così come nella luce abbacinante del finale. La chiave di volta è nell’agnizione. Il dolore che diventa gioia. “Che hai dovuto sopportare per me? Nichts Mein, Florestan. Meine Seele war mit dir: wie hatte. Nulla mio Florestano, la mia anima era con te”. L’uomo (la donna) che va oltre l’uomo perché la forza è nei valori e negli ideali. Brividi e lacrime.
È qui l’acme dello spettacolo. Un momento di stasi e di estasi che separa il prima dal dopo. Da qui in poi una corsa a rotta di collo verso la libertà, verso la felicità, con il solo rallentamento dell’intrusione di quel finto deus ex machina che è Don Fernando.
La regia di Deborah Warner è perfetta nel seguire questo percorso verso la luce. Magistrale nei movimenti scenici e nell’occupare lo spazio scenico in ogni dimensione. Spiace (per loro) constatare che in molti si siano voluti concentrare sul ferro da stiro elettrico, sul Mocio Vileda e sulla rete da cantiere, perché così si sono persi uno spettacolo bellissimo e affiatatissimo con la direzione partecipe di Baremboim.
La compagnia di canto è corretta con qualche debolezza e con un meraviglioso Rocco.
Abbiamo iniziato con Pereira e con Pereira vogliamo finire. Nel palco di proscenio il Sovrintendente ha passato tutto il finale a cantare parola per parola, a tamburellare, a dirigere, a guardare ammirato il Direttore, l’orchestra, il palcoscenico. Ecco, ritengo che proprio di questo La Scala abbia bisogno: di entusiasmo, partecipazione, amore per la musica. Le polemiche le lasciamo agli eterni insoddisfatti.
In scena fino al 23 dicembre
Foto credit: Brescia/Amisano Teatro alla Scala
Direzione:
Direttore
Daniel Barenboim
Regia
Deborah Warner
Scene e costumi
Chloe Obolensky
Luci
Jean Kalman
Cast:
Don Fernando
Peter Mattei
Don Pizarro
Falk Struckmann
Florestan
Klaus Florian Vogt
Leonore
Anja Kampe
Rocco
Kwangchul Youn
Marzelline
Mojca Erdmann
Jaquino
Florian Hoffmann
Erster Gefangener
Oreste Cosimo
Zweiter Gefangener
Devis Longo