C’è un solo protagonista nella storia: la grande madre Russia. C’è un solo protagonista sulla scena: Valery Gergiev.
La Chovanščina o L’affare Chovanskij che arriva a La Scala è una storia a quadri che narra le vicende della Russia del Seicento, in una narrazione mitizzata e mitizzante, un Don Carlos in salsa slava che racconta l’appetito per il potere ogni volta che si manifesta la vacanza di una guida. Tutti i personaggi non sono altro che figuranti funzionali a un affresco storico che Modest Musorgskij dipinge per raccontare la propria terra, la propria cultura, la musica, le passioni, l’uomo.
È da questo assunto che parte la regia di Mario Martone, uomo di teatro vero, che cerca di restituire lo stesso affresco calandolo in una dimensione atemporale, che è allo stesso tempo la Russia del Seicento, quella di oggi e un futuro postatomico che ammicca a Blade Runner o Dune. È complice di questa visione Margherita Palli, che lavora quadro dopo quadro su riferimenti precisi di questo immaginario cinematografico. La navicella che taglia la scena in apertura di sipario, gli smartphone che compaiono in più di una scena, i riferimenti all’ISIS, ai selfie, alle masse riprese dalle telecamere sono sottolineature, talvolta anche troppo marcate, che il regista usa per indicarci che le stesse dinamiche del potere sono quelle che vediamo oggi, tutti i giorni attorno a noi.
Il rogo finale rappresentato da una luna incandescente che lentamente avvolge con le sue fiamme tutta la scena è una sorta di apocatastasi che distrugge un intero mondo per dare l’opportunità di un nuovo inizio. Quello che colpisce di più di Martone è la capacità incredibile di muovere le masse. Pochi come lui hanno un senso così completo del palcoscenico. La lettura del direttore Valery Gergiev è straordinaria e così lontana dalla lettura abbadiana che ci ha riavvicinato a questo capolavoro.
Il Maestro legge questa partitura da russo. È il suo sangue che pulsa in ogni nota, è la capacità di far cantare in ogni momento la melodia, è il dramma che in ogni attimo è presente e presago della fine. Ma non è tradizione, o meglio è molto più della tradizione. Gergiev è uno stregone che plasma la musica con le mani. La plasma nelle sue dinamiche, nelle sue trasparenze, nei suoi scoppi, nei suoi sussurri. Incredibile incantatore, seduttore, zar. Tutto questo non deve far pensare che la sua lettura manchi di raffinatezze o di analisi. Il viaggio nel quale ci conduce è una continua scoperta. Motivi nascosti, temi sepolti, cellule sonore sorprendenti.
L’orchestra è ai suoi livelli massimi: un fiume sonoro, un colore straordinario. Caspita che performance. Il coro è incredibile, ogni volta che lo ascoltiamo è una conferma. Il cast delle voci non ha una sola falla. Petrenko è un ottimo Chovanskij, Skorokhodov un eccellente Andrej, ma sono il Golicyn di Evgeny Akimov e soprattuto il Dosifej di Trofimov a colpire maggiormente. La vera star della serata è la Marfa della Ekaterina Sementhuck, impeccabile nella sua misura, nella sua compostezza, nella sua sofferenza. Una Emma di lusso quella della Evgenia Muraveva.