
La cupola di Montmartre e le vetrine colorate del Quartier Latin, le zimarre sgualcite e la soffitta grama, la neve discreta e il freddo impietoso.
Classica, che più classica non si può, è la Bohème che il Teatro Regio di Parma ha proposto come secondo titolo della stagione. L’allestimento è quello storico di Francesca Zambello, rinfrescato da Ugo Tessitore: visto e rivisto, ma sempre efficace e suggestivo. Un classico davvero, insomma.
E la musica? Nulla di sorprendente nella lettura del direttore Valerio Galli, ma il mestiere è solido, e il risultato complessivo non difetta di equilibrio. L’Orchestra dell’Opera Italiana appare un po’ a corto di sfumature e di plasticità, ma non esce dal seminato né lesina dedizione. Al solito, il Coro del Regio è efficiente e ben amalgamato, e la compagine di voci bianche dell’Ars Canto “Giuseppe Verdi” spicca nel quadro variopinto della scena nel caffè Momus.
La troupe di solisti non mostra punte d’eccellenza né indaga granché le profondità del dettato drammatico e musicale, ma nel complesso è ben bilanciata e merita un plauso particolare per la credibilità scenica. Timbro tondo e buona tecnica per la Mimì piuttosto convenzionale di Valeria Sepe; Stefan Pop è un Rodolfo un po’ affettato, ma appassionato e generoso; ben delineato il Marcello di Sergio Vitale; generica la Musetta spiritosa di Cinzia Forte.
Numerosissimo e in buona parte giovane, il pubblico è curioso ed entusiasta, a dimostrazione che un onesto allestimento di tradizione spesso paga più di tante sperimentazioni. Con buona pace di registi visionari e critici bacchettoni.