Le grandi partite si vincono con un grande allenatore, con punte eccellenti e soprattutto con una squadra omogenea, affiatata e coesa.
Che partita incredibile questo Andrea Chénier d’apertura di stagione. Anna Netrebko è il più grande soprano in circolazione. L’esperienza e la maturità l’hanno portata a un livello persino superiore a quanto ci si potesse ricordare. La bellezza della voce, innanzitutto. Il colore brunito che ha assunto è di una bellezza rara. La sicurezza dell’emissione e la facilità degli acuti, potenti e infallibili sono messi a servizio dell’interpretazione musicale e drammatica. Se solo la dizione fosse più accurata ci troveremmo davanti al miracolo.
E ora entriamo nel “pettegolezzo”. Andrea Chénier è Yusif Eyvazov che ha due torti fondamentali: essersi sposato con la Netrebko e non essere nato Del Monaco. “E perché lui? È uno scandalo. A Monaco hanno chiamato Kaufmann. Ce la farà? Se non ci fosse stata lei, non ci sarebbe stato lui”. Bla, bla, bla. Gli ingredienti per un’imboscata ai suoi danni c’erano tutti. E invece ha vinto. Eyvazov è un ottimo tenore e la sua performance come Chénier è stata eccellente. La voce è chiara e squillante, potente il giusto, di una pasta particolare, non immediatamente ammaliante e con un’emissione che è frutto di studio più che di natura. La dedizione, l’umiltà e l’intelligenza che mette nell’interpretare il poeta sono commoventi, ma è la dizione che veramente colpisce, la capacità di lavorare di fino sul personaggio attraverso la parola. È un poeta, un sognatore deluso, un innamorato, una persona in grado di cantare “Come un bel dì di maggio che con bacio di vento e carezza di raggio si spegne in firmamento, col bacio io d’una rima, carezza di poesia salgo l’estrema cima dell’esistenza mia.” Eyvazov la canta a fior di labbra e con tutto il dolore di un cuore che nulla rimpiange. È il suo momento più alto – ma non l’unico – di una prova solida dall’inizio alla fine. È sicuramente il cantante che sposa con maggior convinzione la visione del direttore (ricambiato da un sostegno costante nota dopo nota, parola dopo parola).
Poi c’è Luca Salsi, il miglior baritono dell’era post Cappuccilli-Bruson-Nucci. Spavaldo, innamorato, irritato, accorato, pentito, disperato. Il miglior Gérard che si spossa immaginare nell’impeto e nelle sfumature. Il suo Nemico della Patria è memorabile.
E così, tutto il cast. Non uno dei ruoli secondari è al di sotto dell’eccellenza. In un’opera complessa come lo Chénier – per la gestione delle masse, per i molti interventi del coro e i fuori scena, per la variegata filigrana orchestrale – i complessi scaligeri hanno brillato come non mai. Ed è al Maestro Chailly che si deve attribuire tutta questa meraviglia, tutta questa grazia e a tutto l’amore che ha profuso verso quest’opera negletta (più in Italia che all’estero).
Scorrere sul programma di sala il numero di rappresentazioni dell’Andrea Chénier (che ha visto la luce proprio alla Scala) fino agli Anni 60 è impressionante. Tutti i maggiori interpreti del Novecento (Gigli, Del Monaco, Caniglia, Tebaldi Callas, De Sabata, Votto, Gavazzeni oltre al compositore stesso) hanno contribuito al successo di quest’opera che segna il periodo iniziale del Verismo in musica. Eppure è sparita. Sono rare le apparizioni italiane. Alla Scala, è a un giovanissimo Chailly che si devono le ultime apparizioni.
Cosa è cambiato nel gusto del pubblico italiano? C’è che in Italia c’è una qualche vergogna ad ammettere che il lato “ultrapop” di molte di queste opere possa nascondere qualcosa di più che amore, morte, lacrime, acuti e grand guignol. Ecco, quello che il Maestro Chailly ha tenuto a farci scoprire è proprio quella metà del cielo che abbiamo dolosamente dimenticato. C’è che la scrittura di Giordano è tutt’altro che banale, che l’orchestra non è un mero accompagnamento ora languido ora concitato piena di trucchi, svenevolezze, di clamori e clangori. Quello che accade in buca è un continuo incrocio di temi secondari, di ricercatezze, di esperimenti (non tutti e non sempre riusciti da parte dell’autore). È tutto un pullulare, un ribollire, un nervoso dialogo tra le parti, una ritmica in divenire, un mutare improvviso di tempi. Il Direttore ci ha mostrato tutto questo dalla prima all’ultima battuta, con una trasparenza e una duttilità di fraseggio straordinari. Non è stata una lettura sinfonica ma pienamente operistica, laddove l’opera non è solo un fatto di voci e palcoscenico. Il cantato, il declamato, la frase spezzata, l’aria mancata sul palco vivono come parte di un unico quadro musicale omogeneo e completo. Per cui, se con aria stanca e con naso alzato avevamo dimenticato quest’opera, eravamo noi a esserci sbagliati. E grazie, grazie, grazie a questa orchestra vivida e ultra-precisa e a questo coro sempre più emozionato ed emozionante.
Ultima nota per la regia di Mario Martone (e le scene di Margherita Palli, le luci di Pasquale Mari, i costumi di Ursula Patzak). La new wave teatrale di provenienza d’Oltralpe (della quale sono personalmente appassionato), che predilige la rilettura e talvolta la riscrittura dei testi, ci fa spesso dimenticare cosa voglia dire interpretare in maniera fedele e appassionata un testo – e non parliamo solo di esecuzione pedissequa delle indicazioni di libretto: semplicemente (ed è tutt’altro che semplice) attraverso la movimentazione delle masse, l’uso delle luci, i piani scenici, insomma facendo teatro.
Attenzione! I cantanti recitano da cantanti (non da attori consumati). Alzano le braccia al cielo, si abbracciano appassionatamente, lanciano l’acuto guardando il loggione, portano i pugni al petto. Ma sono meravigliosi perché tutto il contesto attorno a loro è fatto per metterli al centro, per dare rilevanza parossistica alla loro dinamica emozionale esasperata.