E anche quest’anno MiTo offre la possibilità ai milanesi e ai torinesi di avvicinarsi con spontaneità e naturalezza alla grande musica.
L’apertura settembrina del Festival è ormai l’inizio della stagione milanese. Le vacanze sono alle spalle e le abbronzature in sala lo dimostrano. Il Gran Premio di Monza, il Forum Ambrosetti, le scuole che riaprono. Il concerto inaugurale di MiTo è un 7 dicembre dai toni estivi e più leggeri. La Scala, il Sindaco, la Milano che conta, il concerto più importante. Da par suo, MiTo non si sconfessa e apre con una serata maiuscola. Zubin Mehta (ormai più che consueto sul palcoscenico del Piermarini), la Israel Philarmonic Orchestra (compagine eccezionale) e la regina delle regine del pianoforte Martha Argerich. La leonessa con la criniera, che abbiamo la fortuna di vedere in città almeno una volta l’anno, è il nostro motivo di gioia, la meraviglia che si fa suono.
Martha procede spedita verso il pianoforte accompagnando l’amico Zubin meno agile e con bastone ma non meno battagliero. C’è in questa apparizione un’umanità, una dolcezza, un sentimento di collaborazione che saranno il segno stilistico che da lì a poco ritroveremo nell’esecuzione del “Secondo Concerto” per piano e orchestra di Beethoven. Del suono della Argerich si è detto e scritto di tutto, quello che colpisce sempre non è tanto l’incredibile agilità delle dita di questa donna ma la sua capacità di creare suono. Ogni nota è tornita, definita, luminosa. Ogni tasto è un diamante che brilla e che rifulge tanto più nella serena classicità di questo concerto così tanto amato ed eseguito dalla pianista argentina. Solo qualche anno fa l’avevamo sentita al Dal Verme con la Kremerata Baltica.
Se lo smalto dell’esecuzione è identico, diverso è l’approccio. In quest’occasione la sentiamo più riflessiva, più vicina a Mozart che a Haydn. Che meraviglia il secondo tempo, che respiro, che saudade. Sì, saudade perché si assapora un che di dolce e di riflessivo che sfiora la tristezza senza mai toccarla veramente. Non c’è parola italiana che possa descrivere questo sentimento. Zubin non l’accompagna, la sorregge. Crea per lei una sorta di cuscino sonoro tenerissimo e che le dà modo di esprimere l’infinita gamma cromatica che la pianista riesce a produrre. Nell’ultimo tempo è Martha che strappa, che danza, che punge, che gioca con il suo amico direttore e con l’orchestra. Meraviglioso. Semplicemente meraviglioso. L’entusiasmo del pubblico viene ricompensato con una sonata di Scarlatti, altro cavallo di battaglia della pianista, suonata con sorprendente modernità e velocità quasi a mangiar le note.
Il romanticismo tempestoso e onirico della “Sinfonia Fantastica” di Berlioz del secondo tempo del concerto è affar diverso. Mehta sceglie il colore e l’analisi degli impasti più che la narrazione e lo sviluppo. Il risultato è notevole soprattutto in alcuni momenti, ma rimane in qualche modo un’esecuzione non pienamente risolta. Una polka di Strauss figlio come bis, strepitosa per brillantezza. Orchestra notevolissima che ha con il direttore un’evidente grande intesa e che unisce i colori viennesi degli archi alla potenza degli ottoni delle orchestre americane. La sala del Piermarini ha evidentemente un’acustica poco adatta alle grandi orchestre e questa volta lo si sentiva più che in altre occasioni. Successo trionfale.
Foto Credit: Oded Antman